5.3.10

Una vita fa

Fa piuttosto freddo oggi. Mio padre mi guarda come per incitarmi a fare di più. Certo. Peccato che lui sia una montagna, ed io sia ancora gracile malgrado la mia età. Lavorare nei boschi dovrebbe rendere forti. Ma pare che questo non stia funzionando particolarmente per me.
In casa servono soldi. E le mie braccia, per quanto esili, sono comunque utili a portare il pane a tavola.

È un sollievo quando raggiungiamo la camionetta per tornare al paese. Sono stanco morto. La testa mi ciondola per il sonno e ho fame. Un macigno mi si appoggia pesante sulla spalla. Mio padre mi guarda e accenna un sorriso. Non è un uomo di molte parole. È così che mi dice che ho fatto bene, per oggi.

A casa le mie sorelline corrono da una parte all'altra del tavolo, aiutando nostra madre ad apparecchiare. Al nostro arrivo, tutte contente si precipitano da noi. La più piccola ha raccolto dei fiorellini e li ha messi a centro tavola. Il banchetto di una famiglia come tante, impreziosito dall'affetto di una bambina. Non abbiamo il tempo, nè la voglia, di lavarci prima di cena. Ci sediamo. Mangiamo. Pare di rinascere dopo il peso del lavoro di un giorno troppo lungo da sostenere.

Qualcuno bussa alla porta.

Mia madre si alza per andare ad aprire. La fine del mondo entra in casa con il fragore di un tuono. Succede tutto troppo in fretta. Non so nemmeno in che modo io sia caduto a terra, con la faccia premuta contro il vecchio tappeto impolverato. I rumori che sento sono colpi di fucile, che scandiscono il ritmo di oggetti che esplodono e della mia famiglia che...

Ho paura. Sono pietrificato. Fingo che anche a me sia già accaduto ciò che è successo agli altri. Lui se ne accorge. Sento i passi che mi si avvicinano.

Rumore.

Uno schianto assordante. La sensazione di un colpo alla schiena, come in uno stupido scherzo. Non fa male.
È questo che si prova quando si muore?

Apro gli occhi.
Sono io. Il mio corpo è diverso. Mi trovo in un altro dove. In un altro quando.
Dico a me stesso che ho semplicemente sognato.

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